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Alessandra Cavagnetto

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Miretta Malanot

Avv. Alessandra Cavagnetto

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Riconoscimento della causa di servizio in militari affetti da neoplasie. Principi dettati dalla Corte di Cassazione e dal Tar Lazio.

Una recente significativa sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, n. 17017 del 20 giugno 2024, in materia di riconoscimento della causa di servizio, ha accolto il ricorso di un militare affetto da neoplasia, cassando la sentenza della Corte d’Appello di Bologna, così statuendo: “ La causa dev’essere rinviata alla Corte d’appello di Bologna, che, in diversa composizione, si uniformerà ai principi di diritto ribaditi nella presente sentenza e rinnoverà la disamina della fattispecie controversa alla stregua della presunzione di dipendenza del rapporto eziologico e della conseguente necessità che sia l’amministrazione a fornire rigorosa prova contraria, idonea a vincere la predetta presunzione”.

La Suprema Corte ha annullato la sentenza di secondo grado ritenendo che la Corte d’Appello, nel far gravare sul militare l’onere della prova del nesso eziologico tra il servizio svolto e l’infermità tumorale, si sia discostata dai principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione e abbia deciso la controversia secondo un paradigma normativo che pretermette il carattere indennitario della provvidenza richiesta e vanifica la presunzione di dipendenza causale, disposta dalla legge allo scopo di apprestare una speciale tutela anche sul versante probatorio.

La Corte di Cassazione ben illustra che l’ordinamento riconosce, dunque, una tutela indennitaria a chi abbia contratto un’infermità verosimilmente riconducibile alle particolari condizioni ambientali ed operative.

Le previsioni di legge sono state attuate e specificate con il Decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 90, che, all’art. 1078 rubricato “Soggetti che hanno contratto infermità o patologie tumorali per particolari condizioni ambientali od operative” definisce le nozioni normative rilevanti “ 1.Ai fini del presente capo, si intendono:

  1. a) per missioni di qualunque natura, le attività istituzionali di servizio proprie delle Forze armate e di polizia, quali che ne siano gli scopi, svolte entro e fuori del territorio nazionale, autorizzate dall’autorità gerarchicamente o funzionalmente sopra ordinata al dipendente;
  2. b)  per teatro operativo all’estero, l’area al di fuori del territorio nazionale ove, a seguito di eventi conflittuali, è stato o è ancora presente personale delle Forze armate e di polizia italiane nel quadro delle missioni internazionali e di aiuto umanitario;
  3. c)  per nanoparticelle di metalli pesanti, un particolato ultrafine formato da aggregati atomici o molecolari con un diametro compreso, indicativamente, fra 2 e 200 nm., contenente elementi chimici metallici con alta massa atomica ed elevata densità (indicativamente > 4000 Kg/m³), quali il mercurio (Hg), il cadmio (Cd), l’arsenico (As), il cromo (Cr), il tallio (Tl), il piombo (Pb), il rame (Cu) e lo zinco (Zn), e anche i metalli di transizione quali i lantanoidi e gli attinoidi (tra questi uranio e plutonio);
  4. d)  per particolari condizioni ambientali od operative, le condizioni comunque implicanti l’esistenza o il sopravvenire di circostanze straordinarie o fatti di servizio che, anche per effetto di successivi riscontri, hanno esposto il personale militare e civile a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto;
  5. e)  per medesime condizioni ambientali, le condizioni comunque implicanti l’esistenza o anche il sopravvenire di circostanze straordinarie che, anche per effetto di successivi riscontri, hanno esposto il cittadino a un rischio generico aggravato”.

Nell’interpretazione della descritta normativa di settore la Corte di Cassazione ha già affermato che “il complesso di tali previsioni rende evidente la consapevolezza del legislatore, sulla base delle conoscenze scientifiche via via emerse, del carattere fortemente nocivo derivante dalla esposizione alle nanoparticelle ivi descritte e degli effetti della stessa esposizione, correlandovi il riconoscimento dei benefici di cui si discute; il citato dato normativo, come si è riportato, richiede che la dispersione nell’ambiente abbia costituito “la causa ovvero la concausa efficiente e determinante delle menomazioni” ed è questo il punto che va correttamente interpretato; non può non attribuirsi a tale espressione il senso di porre in favore di chi richiede le prestazioni assistenziali in parola, e si è trovato nelle situazioni di vicinanza all’ambiente nocivo dettagliatamente descritte dalla medesima disposizione, una presunzione di sussistenza del nesso causale tra la malattia contratta e l’esposizione all’ambiente descritto dalla norma; i destinatari della tutela, infatti, si trovano all’interno di una platea selezionata dagli artt. 1078 e 1079 cit., in ragione del rischio specifico di esposizione, e sono tali disposizioni, come sovente avviene nei sistemi di sicurezza sociale basati sulla rilevanza epidemiologica della peculiare relazione che si pone tra talune attività e certe malattie, che incide sulla disciplina dell’accertamento del nesso causale; i destinatari della fattispecie in esame devono provare i fatti e cioè di essersi trovati in uno degli ambienti selezionati dal legislatore nel quale in concreto si è verificato l’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito ed è quindi avvenuta la dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte da esplosione di materiale bellico e tali circostanze fanno di per sé presumere la dipendenza della forma tumorale contratta dall’esposizione all’uranio impoverito, pur essendo naturalmente possibile fornire la prova contraria” (cfr. Cassazione, Sez. Lavoro, n. 7409/2023).

Una volta che sia acclarata l’effettiva esposizione all’uranio impoverito o alle altre sostanze nocive, si deve presumere il nesso causale con la patologia tumorale (Cassazione, Sez. Lavoro, n. 2996/2024).

Incombe sull’amministrazione che neghi il beneficio la prova contraria, che attiene al decorso eziologico alternativo della patologia denunciata.

Anche una importante sentenza del Tar Lazio Roma, Sez. I bis, n. 8203 in data 24.4.2024 ha accolto il ricorso di un miliare, annullando gli atti impugnati e superando addirittura le risultanze della verificazione ritenendo che le considerazioni svolte nella verificazione, pur apprezzabili, non scalfiscano l’accertamento del nesso di causalità.

Nella parte motiva il Collegio ben motiva la propria decisione, così statuendo: “Non può darsi rilievo, poi, all’affermazione secondo la quale, durante il periodo di servizio in Afghanistan (dal 25 aprile al 22 luglio 2004), l’ufficiale, svolgendo l’incarico di responsabile della sicurezza, non risulterebbe essere stato a diretto contatto con munizionamenti, mezzi o altri residui di esplosioni, mentre l’esposizione indiretta, per ingestione di acqua e cibi o per inalazione, risulterebbe trascurabile (p. 45). E ciò in quanto, come ormai chiarito dalla giurisprudenza, “(…) deve ritenersi irrilevante, anzitutto, la circostanza dell’avere il militare espletato il servizio all’interno di edifici o all’esterno, sia perché le vie di diffusione delle sostanze inquinanti sono molteplici e non si arrestano alla sola via aerea, sia perché è di palmare evidenza come la loro dispersione nell’aria non avrebbe trovato alcun ostacolo negli ambienti chiusi, destinati comunque a essere areati con maggiore o minore frequenza. È ben possibile ravvisare il nesso di causalità sia per l’ingerimento, da parte del militare, di cibi (ortaggi, carne bovina, ecc.) con presenza di sostanze inquinanti, sia per l’inalazione, da parte sua, di siffatte sostanze disperse nell’aria, sia per ulteriori modalità di contatto con le sostanze in questione e, in specie, con l’uranio impoverito contenuto nelle munizioni utilizzate” (Cons. Stato, n. 9544 del 2023 , cit., che richiama, sul punto, Cons. Stato, Sez. II, 7 marzo 2022, n. 1638)”.

Ed ancora: “Neppure risulta significativa, al fine di escludere l’esposizione a fattori di rischio, la circostanza, sottolineata nella relazione, che l’ulteriore missione in Kosovo alla quale ha partecipato il maggiore -OMISSIS- (dal 22 giugno al 25 novembre 2009) si sarebbe svolta a distanza di non meno di sedici anni dall’impiego in loco di munizioni a base di uranio impoverito (v. p. 46).

Come rimarcato dalla giurisprudenza, infatti, specifici studi “(…) hanno esplicitato il meccanismo attraverso il quale l’elevata combustione di tali armi, oltre al deposito di radioattività diffusa (che entra nella catena alimentare e nelle acque e la cui contaminazione “risulta praticamente eterna” con conseguenze di tipo mutagenetico, cancerogenetico e teratogenetico), comporta la fusione di particelle chimiche (nanoparticelle di metalli pesanti che si generano dalle esplosioni di proiettili ed ordigni bellici pesanti, nonché di munizionamento con DU)” (Cons. Stato, Sez. II, 24 ottobre 2022, n. 9054 )”.

Il Tar Lazio precisa che in materia di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle patologie contratte da militari impegnati in teatri operativi esteri, la giurisprudenza ha ormai compiutamente elaborato un complesso di principi, che il Collegio ritiene di condividere e fare propri.

Nello specifico si è affermato che: “ “la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici” (v. Cons. Stato, Sez. I, parere n. 915 del 19 maggio 2021; Id., parere n. 794 del 14 aprile 2021; Id., parere n. 435 del 10 febbraio 2021).

Secondo il Collegio, quindi, deve escludersi la necessità della dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente tale dimostrazione, in termini probabilistico-statistici, con riferimento ai teatri operativi principali… (tra cui Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1661).

Nel solco di tale impostazione, si è poi affermato che “(…) una volta dedotto e comprovato dal militare lo svolgimento della missione di pace nei Paesi balcanici e, al rientro da questa, l’insorgere di una patologia tumorale, l’onere della prova della riconducibilità della patologia stessa al servizio da lui svolto nella predetta missione, sotto il profilo causale o almeno concausale, si ritiene assolto mediante l’allegazione di essersi trovato ad operare in un territorio in cui erano indubbi la presenza di “inquinanti” metallici e, soprattutto, l’utilizzo, nelle operazioni di guerra, di proiettili contenenti uranio impoverito” (Cons. Stato n. 9544 del 2023 , cit., che richiama, sul punto, Cons. Stato, Sez. II, 7 marzo 2022, n. 1638).

Il Collegio ben rileva che l’Amministrazione non possa invocare quale fattore ostativo al riconoscimento della propria responsabilità la mancanza di una chiara evidenza scientifica circa il carattere oncogenetico dell’esposizione umana a residui di combustione di metalli pesanti,: la prova liberatoria non può consistere semplicemente nell’invocare il fattore causale ignoto, ma deve spingersi sino a provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno.

Diversamente, nel quadro di una responsabilità contrattuale posta a garanzia di beni primari, nell’ambito di un ordinamento di settore connotato dall’insindacabilità degli ordini, nel contesto di una missione in un teatro operativo interessato da recenti eventi bellici ed ancora pervaso da plurimi, insidiosi e multifattoriali fattori di pericolo, il rischio causale ignoto grava sull’Amministrazione, non sul singolo militare.

Del resto, la causa ignota, categoria gnoseologica e non ontologica, non è altro che la conseguenza dell’attuale ignoranza scientifica circa i nessi eziologici: è cioè, un dato umano, relativo e dinamico, non una realtà naturale, assoluta e fissa (Cons. Stato, n. 9544 del 2023, cit., che richiama, sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7557).

In altri termini, “In presenza di elementi statistici rilevanti (come accade allorché il militare abbia prestato servizio in un teatro operativo caratterizzato (…) da potenziale contaminazione da agenti patogeni), la dipendenza da causa di servizio deve considerarsi accertata, salvo che l’Amministrazione non riesca a dimostrare la sussistenza di fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l’insorgere dell’infermità, (…) In tale prospettiva, il verificarsi dell’evento ex se integra elemento sufficiente (criterio di probabilità) a determinare la titolarità, in capo alle vittime delle patologie, ad accedere agli strumenti indennitari previsti dalla legislazione vigente (compreso il riconoscimento della causa di servizio e della speciale elargizione) in tutti quei casi in cui l’Amministrazione militare non sia in grado di escludere un nesso di causalità” (Cons. Stato n. 9544 del 2023 , cit., che richiama, sul punto Cons. Stato, Sez. II, 7 ottobre 2021, n. 6684 ).

Il Collegio ha, quindi, ritenuto che parte ricorrente abbia assolto, avendo prestato servizio in un teatro operativo caratterizzato da potenziale contaminazione da agenti patogeni, l’onere della prova a suo carico, con conseguente accoglimento del ricorso.

SENTENZA TAR LAZIO SU RICONOSCIMENTO CAUSA DI SERVZIO.