Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2354/2024, nella parte motiva precisa i requisiti richiesti per il mobbing rispetto al demansionamento così statuendo: “La giurisprudenza, sia amministrativa che civile, ha da tempo precisato che per mobbing deve intendersi un insieme di condotte del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematiche e protratte nel tempo, tenute nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: la molteplicità di comportamenti, siano essi illeciti ex se o anche leciti, ove considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente; l’evento lesivo della salute o della personalità dello stesso; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e ridetto pregiudizio all’ integrità psico- fisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’ intento persecutorio che unisce in un disegno unitario i comportamenti posti in essere (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4509)”.
In merito al demansionamento il Collegio ha evidenziato che tale fattispecie si concretizzi nell’assegnazione al lavoratore di mansioni “inferiori” rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza. Il limite negativo alla sussistenza di un demansionamento si ricava dalla disciplina civilistica del rapporto di lavoro e segnatamente dall’art. 2103 c.c., che concerne lo ius variandi del datore di lavoro.
Dopo la riforma della materia attuata con il cosiddetto “job act” (D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il cui art. 3 ha riscritto integralmente l’art. 2103 c.c.) l’ampiezza di tale facoltà datoriale è stata estesa, stante che il movimento ” in orizzontale” è ora possibile nel rispetto delle mansioni corrispondenti al livello e categoria legale di inquadramento, senza pretenderne più una vera e propria “equivalenza” rispetto a quelle effettivamente svolte in passato.
Di fatto, si è approdati ad una nozione di demansionamento di natura maggiormente formale-giuridica rispetto a quella previgente, che viceversa imponeva di ricavare l’equivalenza” da una serie di fattori atti ad evidenziare la pesatura ” in concreto” delle nuove mansioni svolte (in termini organizzativi, di relazione con l’interno o l’esterno, di autonomia decisionale, di disponibilità di budget ovvero di mezzi e risorse strumentali, ecc.). La ratio del divieto di demansionamento, in tale ottica, era da ravvisare nella necessità di salvaguardare il lavoratore da scelte datoriali che ne comportassero l’impoverimento del patrimonio professionale complessivo, inteso cioè come insieme di attitudini, capacità, competenze ed esperienze, non semplicemente in termini economici. Quella attuale, vuole comunque tutelarne l’inquadramento formale, ma in un’ottica di attenzione privilegiata anche alle esigenze organizzative del datore di lavoro.
Fatte le dovute premesse in merito alla distinzione tra mobbing e demansionamento, il Collegio prosegue chiarendo che anche il lavoratore demansionato o dequalificato possa ovviamente rivendicare il risarcimento del danno professionale subito, patrimoniale, biologico o esistenziale, previa dimostrazione della sua sussistenza, che non può evidentemente identificarsi nel dispiacere che accompagna di regola qualunque cambiamento non condiviso, la cui entità, seppure consistente, dipende piuttosto da fattori di natura meramente emotiva ed interiore, correlati alla sensibilità del singolo.
La potenziale autonomia tra i due fenomeni è stata da tempo riconosciuta dal giudice amministrativo, che ha individuato il relativo discrimine nella mancata necessità di dimostrare nel demansionamento l’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro (Cons. Stato, sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28).
Secondo il Collegio la differenza concettuale, tuttavia, è assai più semplice da delineare in teoria che nella pratica, stante che in molti casi il demansionamento costituisce uno dei possibili modi, se non il più tipico, di atteggiarsi del disegno persecutorio che integra il mobbing.
Quest’ultimo, infatti, può spingersi fino al limite estremo dello svuotamento totale di contenuto dell’attività lavorativa, mediante l’emarginazione e l’isolamento del lavoratore, che costituisce senz’altro la forma più grave di demansionamento (sul punto, v. Cass. civile, sez. Lavoro, 3 febbraio 2016, n. 9899). In tali ipotesi, è chiaro che la situazione di inattività, a maggior ragione ove protratta nel tempo, finisca per ledere al tempo stesso il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino e l’immagine e la professionalità dello stesso, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche del ruolo. Quella che finisce per essere messa in discussione, dunque, è la dignità del dipendente che si manifesta nell’estrinsecazione della propria utilità e delle proprie capacità nel contesto lavorativo.
In sostanza il demansionamento, in ogni sua gradazione, porta con sé anche un decremento della professionalità, intesa come l’insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono mediante il concreto svolgimento dell’attività lavorativa o, anche, come il bagaglio di esperienze e di specifiche abilità che si conseguono con l’applicazione delle nozioni teoriche e pratiche acquisite.
Di conseguenza il demansionamento costituisce il modo per eccellenza di manifestazione del mobbing.
In particolare, il Collegio ritiene che il danno alla salute fisiopsichica, ovvero il danno morale che consegue al demansionamento parte integrante del mobbing si identifichi con quello derivante dal complessivo approccio prevaricatorio: in tale ottica, diviene, secondo l’Organo giudicante, inutile, oltre e prima che difficile, cercare di distinguere l’efficacia causale dell’uno rispetto agli altri comportamenti, tanto che nella fattispecie in esame al Collegio, all’esito della verificazione, si è addivenuti ad una quantificazione in percentuale del danno biologico consolidata all’esito dell’intera vicenda, comprensiva cioè anche della dequalificazione conseguita al trasferimento di sede.
Sempre nella parte motiva il Collegio precisa come il discredito, in quanto destinato a minare l’autostima professionale e umana del lavoratore ed a renderne difficili le relazioni di contesto, sminuendone l’autorevolezza, costituisca una modalità tipica di esercizio del mobbing, concretizzando una subdola ed insinuante violenza morale capace di rendere difficile la permanenza nell’ambito lavorativo di riferimento.
Il Collegio, quindi, in accoglimento dell’appello proposto dal ricorrente ha disposto: “la necessità che l’Amministrazione si determini in ordine all’entità del risarcimento dovuto. Il Collegio ritiene di rimettere il punto alle decisioni delle parti ai sensi dell’art. 34, comma 4, cod. proc. amm., stabilendo i criteri che dovranno guidare l’Amministrazione nella formulazione dell’offerta al danneggiato, ricomprendendo nella stessa il danno biologico nella percentuale riconosciuta (10%) a far data dall’aprile 2012. Essa dovrà altresì corrispondere nella percentuale indicata in tabella anche il danno morale, egualmente riconosciuto. Oltre alla percentuale del danno biologico permanente e del danno morale, dovrà tenere conto degli altri indici indicati nella relazione di verificazione (189 giorni di inabilità al 50 % e 120 giorni di inabilità al 25 %). Per la determinazione del quantum complessivo dovranno essere utilizzate le tabelle all’uopo predisposte dal Tribunale di Milano, nella versione aggiornata alla data del calcolo, senza alcuna ulteriore personalizzazione, non essendone stato comprovato il presupposto. Nella liquidazione complessiva infine dovrà tenersi presente che il debito in questione è di valore, per cui la sua liquidazione deve consentire la rimessa in pristino del patrimonio del danneggiato all’attualità. Sulle predette basi, l’Amministrazione dovrà quindi valutare, ed effettuare, sempre ai sensi del comma 4 dell’art. 34 cod. proc. amm., una proposta di risarcimento al ricorrente nel termine di giorni 90 dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notifica della presente sentenza. In caso di inadempienza dell’Amministrazione nei tempi stabiliti, alla formulazione dell’offerta provvederà il Direttore generale dell’INAIL, o soggetto dallo stesso delegato, quale Commissario ad acta”.
Trattasi, quindi, di una sentenza significativa in quanto riconosce il risarcimento dei danni patiti per mobbing (comprensivo del demansionamento).