A parere del ricorrente, infatti, le condotte mobbizzanti subite da parte di un gruppo di ufficiali dell’Esercito avevano determinato l’insorgere di una grave patologia che aveva poi determinato la perdita del posto di lavoro quale Ufficiale medico in conseguenza del giudizio di non idoneità.
Per di più, la patologia in questione era stata ritenuta non dipendente da causa di servizio: dal che, la proposizione di motivi aggiunti di ricorso con cui è stato chiesto l’annullamento del parere del Comitato di Verifica e del Decreto del Ministero della Difesa che, appunto, aveva rigettato la causa di servizio.
La pronuncia – previa statuizione della giurisdizione in materia del Giudice Amministrativo – ha diffusamente illustrato i presupposti affinché possa ritenersi sussistere la fattispecie del mobbing.
Quanto alla questione preliminare relativa alla giurisdizione il T.A.R. ha ritenuto sussistere in materia la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di controversia attinente al pubblico impiego di personale non contrattualizzato (art. 133 comma 1 lett. i del Codice del Processo Amministrativo ed art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001) e, nello specifico, di richiesta di risarcimento del danno derivante dal ritenuto mobbing, quale responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di garanzia/protezione dettato dall’art. 2087 del Codice Civile (che impone al datore di lavoro l’adozione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro).
In altri termini, sussiste la giurisdizione del Giudice Amministrativo in quanto la richiesta risarcitoria è relativa al danno lamentato dal militare e ritenuto riconducibile al rapporto di servizio (in particolare, ai lamentati comportamenti vessatori adottati nell’esercizio del potere di supremazia gerarchica).
Risolta la questione preliminare attinente alla giurisdizione, il T.A.R. è entrato nel merito della questione, ritenendo nel caso in esame non sussistere una fattispecie di mobbing in quanto non provata dal ricorrente nei suoi due elementi costitutivi: elemento soggettivo ed elemento oggettivo.
Quest’ultimo è integrato da ripetuti soprusi, da una pluralità di comportamenti persecutori che devono avere l’unico scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa, così da determinarne l’isolamento fisico, morale e psicologico all’interno del contesto lavorativo; deve sussistere, in altri termini, quella che il T.A.R. definisce una strategia unitaria persecutoria che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una situazione di debolezza.
Quanto al secondo profilo la giurisprudenza ritiene che l’elemento psicologico del mobbing sia integrato dal dolo generico o dal dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore; sussiste, pertanto, mobbing qualora l’unica ragione della condotta sia consistita nel procurare un danno al lavoratore.
Ciò determina che non sussista mobbing qualora via siano fra datore di lavoro e lavoratore posizioni divergenti o conflittuali connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro.
Il disegno persecutorio (in cui si concretizza il mobbing) a parere del Giudice Amministrativo deve essere provato dal dipendente: nel caso di specie il T.A.R., pur dando atto dell’articolata ricostruzione dei fatti esposta dal ricorrente e della copiosa documentazione prodotta in giudizio, ha ritenuto tali elementi non sufficienti a dimostrare nel caso concreto la sussistenza dell’elemento oggettivo del mobbing (ripetuti soprusi tali da determinare l’isolamento psicologico, fisico e morale del lavoratore nell’ambito lavorativo) e dell’elemento soggettivo (strategia unitaria persecutoria e discriminante).
Le circostanze illustrate dal ricorrente (ricordate ed esaminate una ad una nella pronuncia in esame) secondo il T.A.R., pur idonee a dimostrare elementi di criticità o episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, non consentono di individuare una fattispecie di mobbing, non avendo carattere esorbitante e unitariamente persecutorio.
Per completezza si evidenzia che il T.A.R. ha rigettato il ricorso introduttivo, ma ha accolto i motivi aggiunti proposti dal ricorrente annullando il parere del Comitato di Verifica per le cause di servizio ed il decreto ministeriale che – recependo tale parere – aveva ritenuto l’infermità patita dal ricorrente non dipendente da causa di servizio.
Il T.A.R. ha evidenziato il difetto di istruttoria in quanto tali provvedimenti si basavano su di una situazione clinica non più attuale (in particolare su accertamenti risalenti della C.M.O) che risultava superata da accertamenti successivi della medesima Commissione al seguito dei quali il ricorrente è stato dichiarato non idoneo al servizio e, pertanto, riformato.
Per di più la pronuncia in esame ha accolto i motivi aggiunti anche sotto l’ulteriore profilo della violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/1990 (che stabilisce l’obbligo per la Pubblica Amministrazione di comunicare al richiedente il c.d. preavviso di rigetto), evidenziando che nel caso di specie, qualora l’Amministrazione avesse comunicato al ricorrente il preavviso di rigetto il ricorrente avrebbe potuto far presente il difetto di istruttoria di cui sopra.
Tale sentenza risulta significativa in quanto ribadisce i presupposti (sanciti dalla giurisprudenza) che debbono sussistere affinché si possa parlare di mobbing, esaminando il caso particolare di un Medico Militare che lamentava di aver subito condotte mobbizzanti nell’ambito dell’Esercito Italiano.
Di conseguenza, detta pronuncia (pur non avendo accolto la tesi del ricorrente) potrebbe essere richiamata in eventuali ricorsi presentati da militari che ritenessero di aver subito condotte mobbizzanti da parte dei Superiori Gerarchici, qualora fossero in grado di assolvere all’onere probatorio (in realtà assai gravoso), ossia dimostrare nel caso concreto la sussistenza sia dell’elemento soggettivo che dell’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing.