Con la pronuncia in questione la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione sollevata (in riferimento agli artt. 3, 4, 27, 35, 51 e 97 Cost.) dal Consiglio di Stato in ordine all’art. 1 del D.P.R. n. 339/1982 nella parte in cui ha escluso o, comunque, non ha previsto la possibilità di disporre il transito nei ruoli civili dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza o di altra amministrazione pubblica per gli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato che espletano funzioni di polizia, in caso di riscontrato difetto dei requisiti attitudinali.
La norma di cui sopra stabilisce, infatti, che: “il personale dei ruoli della Polizia di Stato, che espleta funzioni di polizia, giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all’assolvimento dei compiti d’istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l’infermità accertata ne consenta l’ulteriore impiego”.
La vicenda nasceva dal ricorso in appello pendente innanzi al Consiglio di Stato, proposto avverso la sentenza del T.A.R. Puglia che aveva respinto il ricorso di un membro della Polizia di Stato avverso gli atti con i quali il Ministero dell’interno – dopo avere disposto la revoca della sospensione cautelare del ricorrente dal servizio e la verifica della permanenza dei requisiti psico-fisici ed attitudinali – ne aveva disposto la cessazione dal servizio nell’amministrazione della pubblica sicurezza, in quanto ritenuto non idoneo al servizio di polizia.
A parere del Giudice remittente, pertanto, la questione di legittimità costituzionale della norma n questione era rilevante ai fini della definizione del giudizio in corso ed aveva evidenziato che la norma in questione non sarebbe coerente con il principio di ragionevolezza, qualora venisse interpretata nel senso che l’agente della Polizia di Stato – privo dei requisiti attitudinali – subisce la cessazione del rapporto di impiego pubblico.
La Corte Costituzionale ha rigettato la tesi avanzata dal Consiglio di Stato, precisando che non sussiste – tanto per i datori di lavoro del settore pubblico che per quelli del settore privato – un obbligo generalizzato di assegnare a un altro ambito mansionistico il lavoratore che si dimostri non capace a rendere la prestazione lavorativa richiesta, tranne che nell’ipotesi di inidoneità parziale all’impiego causata da un sopravvenuto deficit di salute.
In merito i Giudici costituzionali hanno statuito che: “Solo nel caso di una menomazione fisica o psichica i principi costituzionali di solidarietà sociale e quelli eurounitari di non discriminazione di cui alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, impongono siffatto obbligo. In tale ipotesi, si è individuato un peculiare punto di equilibrio tra le esigenze del datore di lavoro a un ottimale uso delle proprie risorse e quelle del lavoratore, che tiene conto dell’obiettiva difficoltà che può incontrare colui che subisce una infermità a trovare una nuova collocazione nel mondo del lavoro. La stessa direttiva 2000/78/CE , inoltre, al suo considerando 17, “non prescrive […] il mantenimento dell’occupazione […] di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili”.
Di conseguenza, sempre a parere della Corte Costituzionale non risulta irragionevole e costituisce una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore, non consentire il transito in altri ruoli dell’amministrazione dell’agente della Polizia di Stato che, risultando privo dei requisiti attitudinali, non sia più in possesso della specifica capacità lavorativa richiesta per l’espletamento delle funzioni per le quali è stato assunto.
Sotto diverso profilo, poi, la Corte Costituzionale ha escluso che la scelta effettuata dal legislatore e codificata nell’articolo 1 del D.P.R. n. 339/1982 determini – diversamente da quanto ritenuto dal Consiglio di Stato nell’ordinanza di rimessione – una violazione dell’art. 3 della Costituzione per disparità di trattamento rispetto al personale dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza.
Infatti, secondo la Corte Costituzionale le disposizioni richiamate dal giudice a quo, che consentono il transito in altri ruoli di tale personale (per l’Arma dei carabinieri l’art. 930, comma 1, del D.Lgs. n. 66 del 2010 e per la Guardia di finanza l’art. 14, comma 5, della L. n. 266 del 1999), fanno riferimento all’ipotesi di inidoneità al servizio “per lesioni dipendenti o meno da causa di servizio” e, quindi, non trovano applicazione nel caso di perdita del requisito delle attitudini.
Parimenti, i Giudici costituzionali hanno ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 4 e 35 della Costituzione, riguardanti il diritto al lavoro e la sua tutela così motivando: “Il riconoscimento di tale diritto non comporta il generalizzato obbligo di garantire la conservazione del posto di lavoro al lavoratore che non possegga i requisiti necessari per adempiere in maniera adeguata alle prestazioni richieste. Come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, “la garanzia del diritto al lavoro non comporta una generale ed indistinta libertà di svolgere qualsiasi attività professionale, spettando pur sempre al legislatore di fissare condizioni e limiti in vista della tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione e, più in particolare, di valutare, nell’ interesse della collettività e dei committenti […] i requisiti di adeguata preparazione occorrenti per l’esercizio dell’attività professionale medesima” (sentenza n. 441 del 2000).